Il triste destino dei precari della ricerca nell’università italiana

di Francesco Vitucci  e Saverio Bolognani per Roars (Return On Academic Research).

L’ Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca Italiani (ADI) ha eseguito un’indagine sull’entità del precariato nell’università, sulla sua evoluzione negli anni scorsi e sui possibili sviluppi nei prossimi anni: di seguito riportiamo i punti salienti di questo studio. Questa analisi può essere utile per chiarire il problema del reclutamento ai ruoli universitari e come la legge Gelmini ha cambiato il panorama.

La situazione al 31 Dicembre 2010, eseguita dal Coordinamento Precari dell’università su dati del  MIUR è riassunta nella seguente tabella, in cui le tipologie di personale con diversi tipi di contratto a tempo determinato sono quelle definite dall’ufficio statistica del ministero (tra parentesi sono riportati i corrispondenti numeri per il 2009).

Tipologia Numero
Borse di studio 6565 (9298)
Borse PostDoc 747 (734)
Assegni di ricerca 17942  (15784)
Co.co.co (superiore a 6 mesi) 8096 (8264)
Ricercatori a tempo determinato 1240 (475)
Totale 34950 (34555)

Ricordiamo inoltre che nell’università c’erano (al 31.12.2010) 41349 docenti a contratto, che non consideriamo nell’analisi che segue in quanto  questa è una categoria composita ed accanto ai giovani si trovano anche professionisti, docenti in pensione ecc.

Con la riforma Gelmini sono state abolite, per quello che riguarda gli incarichi di ricerca, le borse di studio, le borse postdoc ed i co.co.co. Dunque  accanto ai ricercatori a tempo determinato sono consentiti gli assegni di ricerca. Facendo una ricerca nel nuovo sito dell’ufficio di statistica del Miur (vedi qui e qui) troviamo (al 10.5.2012) la seguente situazione

Tipologia Numero
Assegni di ricerca 13297
Ricercatori a tempo determinato(*) 1037
Totale 14334

*Il nuovo sistema ancora non riconosce la differenza fra ricercatori a tempo determinato di tipo a e b (RTDa e RTDb).

Dunque dai 34590 al 2010 si passa all’attuale 14334 con un calo del 25% degli assegni di ricerca, un calo del 16% (200 unità) dei ricercatori a tempo determinato ed una soppressione delle altre tipologie contrattuali (borse di studio, borse postdoc, contratti co.co.co superiori a 6 mesi). Tra la fine del 2010  e l’inizio del 2012 mancano all’appello 22356 precari della ricerca con diversi tipi di contratti temporanei ovvero il 60% del totale nel 2010. Tra questi vi sono sicuramente coloro che già avevano finito sia il dottorato che un assegno di ricerca (che in genere viene conseguito dopo aver fatto il dottorato). Si tratta dunque di studiosi con anni d’esperienza alle spalle. Certamente non tutti vogliono proseguire nella carriera accademica ma confrontando i dati per anni precedenti al 2010 troviamo sempre numeri dello stesso ordine di quelli del 2010. La grande differenza si nota solo dal 2010 ad oggi. Dove sono dunque finiti i 20000 mancanti? Quali sono gli effetti della mancanza di questo personale nelle università e quali saranno gli effetti sulla ricerca che si svolge in Italia?  Non sappiamo rispondere a queste domande in maniera esaustiva, ma notiamo che il ministero dovrebbe fare un monitoraggio completo e dettagliato di questa situazione per rispondere a queste questioni e più in generale per cercare di prevenire la dispersione di personale qualificato. Notiamo che la differenza di 22356 unità è dello stesso ordine del numero di ricercatori a tempo indeterminato, ruolo che è stato soppresso con la legge Gelmini.

Passiamo ora agli scenari futuri per quanto riguarda le possibilità d’inserimento nei ruoli stabili dell’università data l’attuale normativa vigente. Per delineare scenari possibili dobbiamo tener presente alcune condizioni al contorno:

a)  le regole sul turnover;

b)  le regole di ripartizione delle risorse derivanti dal turnover;

c) le regole che impongono un limite ai rinnovi dei contratti, diverse per assegni (rinnovabili per massimo 4 anni) e RTDa (3 anni estendibili ad altri 2)

I primi due punti sono egregiamente spiegati e riassunti nel recente articolo di Paolo Rossi. La sua conclusione, da cui noi partiremo, è che in uno scenario ottimista per il prossimo triennio saranno banditi 500 RTDb all’anno (che noi considereremo, ancora ottimisticamente, come tutti realmente tenure-track, ovvero che porteranno all’inserimento come professore associato dopo previsti i tre anni di prova).  Non è tuttavia possibile prevedere il numero RTDa che verranno banditi in quanto questi possono utilizzare fondi non ministeriali.

Scenario 1

Per cominciare consideriamo un limite superiore alla possibilità di reclutamento.

A)   Ipotizziamo che il numero di RTDb banditi annualmente rimanga di 500, anche dopo il primo triennio (ipotesi ottimistica perché il numero di pensionamenti diminuirà col tempo)

B)   Ipotizziamo che tutti gli assegnisti attuali trovino poi uno sbocco come RTDa e che abbiano la pazienza di aspettare 9 anni (4 anni di assegno + 5 RTDa) con contratti a termine.

Dall’ipotesi (A) abbiamo che in 9 anni dovrebbero essere attivati 4500 RTDb. Da qui è facile calcolare che il 68% dei circa 14000  contratti a termine censiti nel 2012 (13297 assegnisti + 1037 tempi determinati) non sarebbe trasformato in un posto  a tempo indeterminato.

Scenario 2

Elaboriamo ora uno scenario più realistico. Manteniamo l’ipotesi di 500 RTDb all’anno ma consideriamo però che sia inverosimile l’ipotesi che tutti gli assegnisti possano ottenere dopo 4 anni un RTDa. A differenza del calcolo precedente, l’espulsione per chi non ottiene un
RTDa non avviene più dopo 9 anni ma dopo soli 4.

Per fare un calcolo di quanti sarebbero espulsi alla fine del “percorso assegno” (e quindi senza nessuna tutela di welfare)  bisogna necessariamente fare delle ipotesi in qualche modo arbitrarie. La nostra ipotesi di buon senso  è che il rapporto RTDa/RTDb si possa considerare vicino a 3/1, che porterebbe ogni anno all’attivazione di 1500 RTDa. Utilizzando la regola (c), dunque, possiamo calcolare che dopo 4 anni sarebbero espulse 8000 persone. Per i restanti RTDa (6000) (data l’ipotesi 3:1) la probabilità di reclutamento sarebbe di 1/3: altre 4000 persone non troverebbero più nessuna posizione. In questo scenario quindi dei circa 14000 precari della ricerca attualmente presenti nell’università italiana, ben  12000 ovvero l’85% non troverebbero più nessuna posizione.

Alla luce di questi dati, inoltre, ci siamo chiesti se queste prospettive nefaste possano essere mitigate lì dove la ricerca viene fatta ad alti livelli, raccogliendo dei dati relativi ai cosiddetti dipartimenti di “eccellenza”.  A questo scopo abbiamo studiato due dipartimenti (uno di area scientifica e uno di area ingegneristica) di cui non riveliamo i nomi:  il nostro intento, infatti, non è denunciare questi dipartimenti, che sono i fiori all’occhiello del nostro sistema universitario, ma le regole che sono imposte al sistema universitario. I risultati sono sintetizzati nei Grafici 1 e 2

Grafico 1: Rosso Assegnisti, Blu strutturati

Grafico 2

Nel Grafico 1 abbiamo evidenziato l’andamento temporale del personale strutturato confrontato con la popolazione dei soli assegnisti. In linea con le tendenze generali, negli ultimi 5 anni la popolazione degli strutturati è calata (sopratutto nel Dipartimento A). Ciò che invece si discosta   dai dati aggregati per tutta l’università, è l’incremento continuo dei precari. La spiegazione di quest’ anomalia è che in questi dipartimenti la maggior parte dei contratti precari vengono attivati su fondi di progetto, quindi non ministeriali. Nel Grafico 2, poi, vediamo come nel dipartimento A, gli assegnisti siano addirittura più che triplicati in soli 5 anni e che solo grazie alla loro presenza il numero totale del personale di questi dipartimenti non diminuisce a causa del blocco del turn-over, anzi aumenta di poco.

Per fotografare meglio la situazione di questi dipartimenti, nel Grafico 3 abbiamo confrontato la popolazione degli strutturati con il personale totale adibito alla ricerca (comprendendo quindi dottorandi, assegnisti e RTD):  come si vede benissimo, ormai la popolazione del personale temporaneo  in questi dipartimenti non è affatto marginale, anzi nel dipartimento B supera addirittura quella del personale strutturato.

Grafico 3:

Data questa situazione, abbiamo provato ad utilizzare le ipotesi dello scenario 2 per calcolare le possibilità di reclutamento dei ricercatori a tempo determinato in questi due dipartimenti: il calcolo mostra  che la percentuale di espulsione sarà del 95%, maggiore rispetto ai dati aggregati. Proprio i dipartimenti che rappresentano le punte più avanzate del nostro sistema universitario dunque, sono le prime laboriosissime fabbriche di precari senza prospettive.  Per queste figure, infatti, dato l’attuale blocco (o quasi) del reclutamento in tutte le università Italiane, non ci sarà possibilità di inserimento neanche in dipartimenti diversi da quelli in cui lavorano attualmente. Tuttavia la situazione reale è di gran lunga peggiore in quanto con il tempo il numero degli assegnisti è in continuo aumento.

Fin qui abbiamo parlato di cifre di precari utilizzando i dati del Ministero. Al di là dei dati ufficiali, chi ha il polso della situazione dentro l’università intuisce che i precari della ricerca si aggirano almeno attorno alla cifra di 30000 in quanto una parte di questi sono mascherati come docenti a contratto, cultori della materia nel tempo libero e purtroppo lavoratori in nero. Inoltre crediamo che gli oltre  20.000 a cui non è stato rinnovato il contratto dal Dicembre 2010 non sono andati molto lontano con una disoccupazione giovanile al 31,9%.  In queste condizioni le stime presentate sopra peggiorano di molto e la possibilità di trovare un lavoro stabile nell’università diventa un miraggio per la maggior parte degli attuali precari della ricerca. E’ chiaro che il processo di ridimensionamento delle università ha avuto e avrà come effetto essenzialmente una espulsione di massa di giovani precari della ricerca. Questo fenomeno a nostro avviso è un problema sociale e politico che il governo deve affrontare in maniera aperta e trasparente. Se in un’azienda, pubblica o privata,  una frazione consistente del personale perde il lavoro, il governo interviene per scongiurare una “sofferenza sociale”, anche se molto spesso in maniera non efficace. Nell’università  però, stiamo assistendo al fenomeno contrario: è proprio il governo a causare il processo d’espulsione, che si profila come una vera e propria “emergenza” sociale e che in più disperde il patrimonio di professionalità che giace nelle figure a più alta formazione che abbiamo nel nostro paese.