CONTRIBUTI AL DIBATTITO: Scienza, ricerca e copyright

“l’intero venerato progresso tecnologico – l’intera nostra civilizzazione – è come un’ascia nelle mani di un criminale patologico”
A. Einstein

Partendo da una riflessione sul concetto di scienza è sicuramente molto difficile non perdersi nei meandri di tutte le connessioni e implicazioni che essa mantiene con quella che possiamo chiamare la società.
In realtà il concetto di scienziato, e soprattutto l’utilizzo di questo termine, resta assai vago, forse anche un po’ vetusto, infatti per denominare tale figura si preferisce in genere utilizzare il termine “ricercatore”.

Infatti, a differenza delle grandi menti dei secoli scorsi, che solitamente ad un’attività di indagine della natura accompagnavano un’analisi (più o meno profonda e accurata) di tutto ciò che li circondava (essendo nella maggior parte dei casi degli intellettuali a tutto campo), in questo periodo storico la ricerca scientifica è divenuta sempre più specializzata e confinata in molteplici micro-settori, da cui è sempre più difficile riuscire a tirare fuori la testa per vedere se, infine, l’ambiente circostante ha veramente una necessità e una disponibilità ad accogliere ciò che si è in procinto di studiare.
Date queste premesse è molto difficile azzardare un’ipotesi sulla neutralità della scienza, in quanto il confine tra essa e la mera applicazione tecnologica che ne consegue è diventato sempre più sottile ed offuscato, ancor di più se si considera che una gran parte dei finanziamenti ricevuti dai diversi enti di ricerca viene elargita da privati, che comprendono l’importanza sempre crescente assunta dallo sviluppo tecnologico all’interno della corsa alla conquista del mercato da parte delle più grandi aziende mondiali. E lo sviluppo tecnologico, come noto, ha ben poco a che fare con il cosiddetto “bene sociale”, in quanto ha come suo fine (solo e) ultimo quello di trovare delle soluzioni alla costante sovrapproduzione di un sistema industriale in crisi permanente e di un sistema finanziario sempre più staccato dall’economia reale. In questo contesto le forze egemoni hanno da sempre lottato per rendere la scienza un elemento accessorio del sistema prevalente di sviluppo economico (ma poi quale sviluppo…?).

L’obiettivo della scienza non è mai stato quello di migliorare il mondo (bisognerebbe essere inguaribilmente ottimisti per pensarlo…), ma nemmeno quello di servire il libero mercato per creare una più grande disuguaglianza tra le varie classi sociali…allora qual’è il suo scopo? Il fine ultimo della scienza è sicuramente la comprensione e la modellizzazione della natura al fine di potere conoscere e prevedere dei fenomeni che prima mancavano di una spiegazione. Ma è possibile fermare qui il nostro obiettivo? Non sentiamo veramente quella speranza in una “rilevanza sociale” della scienza, ovvero che ciò che viene scoperto oggi possa in qualche modo aiutare “realmente” la società nel futuro prossimo, piuttosto che andare ad alimentare e accrescere la lista dei desideri imposta dall’attuale sistema vigente a tutti i suoi componenti? Desideri che vanno dalla nuovissima applicazione tecnologica di ultima generazione per alcuni più fortunati, alla possibilità di comprare il costosissimo farmaco coperto da brevetto che potrebbe salvare una vita per altri, gli ultimi di questa società. La tecnologia, come si è detto, ha sostituito il concetto della ‘rilevanza sociale’
e dell’attività scientifica.
In un tale contesto, che ruolo può giocare il singolo ricercatore? O ancora meglio, quale può essere la leva che aiuterebbe la comunità scientifica a riprendere il controllo ed il comando del proprio mondo? È possibile terminare questa continua sottomissione della ricerca agli interessi del mercato (e non della società “reale”) in cambio di finanziamenti che le permettono di sopravvivere? Sicuramente il meccanismo in vigore è più simile ad un ricatto che ad un atto di solidarietà, per cui è necessario scardinarlo al più presto, al fine di trovare quello spazio di autonomia che permetta di rimpossessarsi di tutto il terreno perso. Resta molto arduo il cammino da percorrere, ma quale via scegliere per iniziare? A mio avviso la comunità scientifica, a partire dai singoli più motivati e più sensibili al problema, dovrebbe riprendere in mano una situazione che ormai non è più sotto controllo per nessuno, nemmeno per i vertici di questa piramide in procinto di crollare. Per far ciò si dovrebbe invertire il ricatto a cui si è costantemente soggetti, comprendendo a fondo il potere di cui si è in possesso e la necessità che il sistema ha del lavoro incessante e continuativo della ricerca. La comunità accademica, e sicuramente la sua parte più attiva e dinamica in primis, dovrebbe iniziare un processo di ridefinizione di se stessa in una società che non è più la stessa di un secolo fa, che forse non è più la stessa nemmeno a distanza di dieci anni e che quindi costringe tutti a viaggiare troppo veloci per concedersi il tempo di pensare e riflettere (e riorganizzarsi). Questa ridefinizione della scienza dovrebbe partire da una necessità di conquista di una propria autonomia: di scelte, di tempi e soprattutto di obiettivi. Partendo dal presupposto individuato in modo molto chiaro dall’illustre Prof. Amit “…prendere una pausa di riflessione, per cercare di individuare un ‘ethos’ da sottoporre alla comunità scientifica, per aiutarla ad uscire da un labirinto senza uscita di sospetti e ostilità, sempre in aumento..”.

Sicuramente alla base di questa riflessione vi è un’importanza fondamentale dell’etica personale del singolo scienziato, che purtroppo è spesso distorta e offuscata dalle cosiddette regole di concorrenza proprie del mercato. Finanziamenti privati arrivano nel momento in cui il lavoro di ricerca si rivela proficuo e innovativo rispetto alle conoscenze attuali: l’importante è arrivare primi e avanzare nei propri progetti per ottenere nuovi finanziamenti per sopravvivere, poco importa se si sta parlando di atomi, bioingegneria, neurobiologia, chimica-farmaceutica, gnomica-proteomica, nanotecnologia o biotecnologia. In un tale contesto,quindi, appare evidente come l’ethos citata prima finisca per divenire quella dei finanziatori esterni.

Tuttavia la direzione auspicabile non è certamente quella in cui ogni ricercatore sia “padrone” della propria ricerca e possa servirsene a suo piacimento. Ecco perché il problema della ricerca e della tecnologia non può prescindere da quello della proprietà intellettuale delle scoperte scientifiche, che in generale si inserisce all’interno del dibattito sempre aperto dei brevetti e del copyright. Sempre più spesso, infatti, soprattutto per quanto riguarda le discipline più prossime al settore dello sviluppo tecnologico e dell’industria bellica, il ricercatore, a volte completamente ignaro del fine ultimo del proprio lavoro di ricerca (anche se a volte questo fine non è conosciuto a priori da nessuno), viene anche spogliato di qualsiasi forma di coinvolgimento in quello che sarà l’utilizzo del proprio lavoro, nonché egli è impossibilitato ad imporre delle limitazioni (provenienti da un ragionamento di tipo etico di cui si è parlato in precedenza) sull’utilizzo e le possibili applicazioni del proprio lavoro. Molte frontiere in questo campo sono state già abbattute, in particolar modo in altre discipline, ad esempio con lo sviluppo dei software liberi, l’invenzione di nuovi tipi di licenze open ed in generale l’utilizzo del cosiddetto “copyleft”. Grazie a questi espedienti, infatti, il creatore di un’opera, sia essa di carattere informatico, letterario o scientifico, ha la possibilità di assicurarsi che il proprio lavoro non venga utilizzato per fini a lui non graditi, o che esso non sia commercializzabile da nessuno in un futuro prossimo, lasciando tuttavia la possibilità al resto della comunità di usufruire liberamente e di implementare il suo lavoro, in un’ottica di condivisione delle proprie idee.
Tuttavia in un contesto come il nostro sembra molto difficile pensare ad un tale scenario, soprattutto in campi come la scienza per la tecnologia o la farmaceutica dove gli interessi economici e politici in gioco sono davvero troppo imponenti per lasciare libertà e autonomia ai ricercatori…che dire: crederci oppure no? A tutti noi l’ardua sentenza.

“Oggi l’economia è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi spaventosi, per produrre delle cose per lo più inutili che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che da soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente. Io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola “felice”, ed è “contento”. Accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice.”
Tiziano Terzani

j.j.